Il Maiorchino di Novara di Sicilia
Il Maiorchino di Novara di Sicilia
La vicenda di un formaggio che ha rischiato d’essere perduto si intreccia con la storia centenaria delle comunità rurali dei Monti Peloritani e con quella di Carmelo Ferrara, detto u Murgaellu. Ve la raccontiamo.
TESTO E VIDEO DI TOMMASO RAGONESE
FOTO DI MARCO CRUPI
Il maiorchino è un formaggio quasi mitico. La sua origine non è infatti facile da stabilire con certezza: il nome appare in certi documenti del 1600 con riferimento al giuoco della maiorchina, una gara di lancio del formaggio a squadre tutt’oggi praticata a Novara di Sicilia. Certo è che le sue radici affondano per diversi secoli nel passato, attraverso la storia pastorale nella parte occidentale dei Monti Peloritani, la catena montuosa che divide il versante tirrenico da quello ionico lungo la Sicilia nord-orientale.
Qui, come d’altra parte in tutta la Sicilia, le terre rimasero di proprietà di pochi grandi latifondisti fino alla seconda metà del secolo scorso. Con l’avvento dell’agricoltura industriale e della globalizzazione, la struttura socio-economica rurale siciliana, rimasta pressoché inalterata per circa un millennio, si sgretolava irreversibilmente. Con essa, scomparivano gradualmente anche le conoscenze del mondo pastorale, trasmesse di generazione in generazione dagli zammattari (pastori-casari nel dialetto dei peloritani): tra queste, il metodo tradizionale di produzione del maiorchino. È a metà degli anni ottanta che Carmelo Ferrara fa la sua comparsa in questa storia.
Originario di Fondachelli Fantina, un paese incastonato nella valle del fiume Madridi, Carmelo cresce in una famiglia di contadini-pastori, prima di trasferirsi a Novara di Sicilia con l’intenzione di aprire una macelleria. Come succede in tutti i piccoli paesi siciliani, Carmelo è da sempre conosciuto con il suo soprannome: ‘u murgaellu. “Era il 1985 quando mi decisi a recuperare il maiorchino, un formaggio di cui avevo tanto sentito parlare ma che già non si produceva più. Andai a cercare Don Peppino, un vecchio zammattaro al servizio della Contessa Maiorca”. Secondo ricostruzioni orali, questa donna di nobile famiglia palermitana possedeva vastissimi latifondi nei territori dei moderni comuni di Francavillla di Sicilia, Fondachelli Fantina e Novara di Sicilia.
Nelle terre della Contessa, i curatti (contadini, in dialetto locale) erano dediti alla coltivazione del grano e al mantenimento dei noccioleti, mentre pecurari e zammattari alla cura del bestiame ed alla produzione di carne e formaggi. “Don Peppino, allora già novantenne, mi spiegò che il nome maiorchino derivava da maiorca: non la contessa, bensì la varietà di grano tenero tradizionale coltivata estensivamente in queste zone”. Le pecore e le capre venivano condotte e lasciate pascolare dai pecurari tra i campi dove la maiorca era stata coltivata e poi mietuta. L’alimentazione degli animali, composta principalmente da restuccia – i residui lasciati nei campi dopo la mietitura – e dai pascoli di montagna, donava al latte un sapore unico: era proprio questo latte che veniva usato per produrre il maiorchino.
Dopo un lungo periodo di prove, Carmelo ha ricostruito il processo tradizionale di lavorazione dell’antico formaggio. Tutt’oggi, dopo oltre trent’anni, lo replica fedelmente nel suo caseificio artigianale di Novara di Sicilia e ci ha invitati a documentarlo durante il nostro giro delle Sicilia in 80 giorni. “Il metodo insegnatomi da Don Peppino è diverso dal procedimento di produzione del pecorino tradizionale”. Il latte di pecora e di capra viene mescolato in percentuale del 60/40 all’interno di una quaddara (il tradizionale calderone di rame) e riscaldato a circa 45 gradi. “Don Peppino e gli zammattari prima di lui non avevano termometri a disposizione: per controllare che il latte fosse giunto a temperatura mi disse che era sufficiente infilarci il braccio ‘finchè resiste la mano’. Raggiunta quella temperatura, si poteva aggiungere il caglio”. Il caglio che usa Carmelo, ottenuto dalle interiora del capretto, è lo stesso utilizzato dagli zammattari per generazioni. La quaddara viene quindi tolta dal fuoco per circa un’ora, in modo che si formi la cagliata. Quest’ultima viene poi rotta energicamente con l’ausilio di un attrezzo di legno prima di riportare la quaddara sul fuoco e riscaldarne nuovamente il contenuto “finchè resiste la mano“.
Una volta arrivata a temperatura, Carmelo tuffa le braccia nella quaddara per raccogliere la cagliata formando una palla compatta. Con l’aiuto di un telo di lino e del figlio Salvatore, Carmelo la trasferisce dalla quaddara al mastrello di legno, all’interno di una garbua, la fascia circolare che darà la forma finale al maiorchino. Prima di trasformarsi in formaggio, la palla di latte cagliato ancora densa di siero che riposa ora sul mastrello dovrà essere sottoposta ad un delicato processo di drenaggio.
Con un rudimentale ago d’acciaio, Carmelo infilza la palla di latte cagliato e la pressa delicatamente con le mani. Questa operazione va ripetuta, ci spiega, finchè il siero che fuoriesce non passa da un colore giallastro ad un bianco pulito: ciò può richiedere oltre un’ora di lavoro ritmato e paziente. Nel frattempo, al siero nella quaddara viene aggiunto del latte e la soluzione riscaldata nuovamente, stavolta a circa 85 gradi centigradi, per fare salire la ricotta (non a caso la ricotta prende il nome da questo processo di ri-cottura del siero una volta estratta la prima cagliata). Raccolta la ricotta, la neonata forma di maiorchino viene immersa nella quaddara per un’altra ora.
L’ultima fase della caseificazione prevede un secondo processo di drenaggio, del tutto simile al primo, ed un passaggio in salamoia. La neonata forma di maiorchino può ora iniziare l’iter di stagionatura: massaggiata col sale per circa tre mesi, la ruota di formaggio viene oliata anche settimanalmente fino a maturazione, da un minimo di 6/8 ad un massimo di 24 mesi. Più lunga la stagionatura, più forte, piccante e caratterizzato sarà il sapore del maiorchino.
Il figlio e la figlia di Carmelo, Salvatore e Caterina, vendono il maiorchino ed altre specialità della tradizione agricola e pastorale a Novara di Sicilia, alla macelleria ‘u Murgaellu. Due porte a fianco, Filippo, marito di Caterina, è il proprietario del Bar San Nicola, dove si utilizza la ricotta di Carmelo per produrre squisiti prodotti di pasticceria tipici di Novara: diti d’apostolo, ravioli di ricotta e, naturalmente, i cannoli. Se è raro che un turista possa lasciare Novara senza un assaggio di queste specialità ed una chiacchierata con l’altrettanto squisitamente ospitale Filippo, è ancora più raro vedere Carmelo in paese. Il suo posto è in montagna, tra i suoi animali o a saggiare col braccio nudo la temperatura del latte nella quaddara, come Don Peppino e tutti gli zammattari prima di lui.
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La vicenda di un formaggio che ha rischiato d’essere perduto si intreccia con la storia centenaria delle comunità rurali dei Monti Peloritani e con quella di Carmelo Ferrara, detto u Murgaellu. Ve la raccontiamo.
TESTO E VIDEO DI TOMMASO RAGONESE
FOTO DI MARCO CRUPI
Il maiorchino è un formaggio quasi mitico. La sua origine non è infatti facile da stabilire con certezza: il nome appare in certi documenti del 1600 con riferimento al giuoco della maiorchina, una gara di lancio del formaggio a squadre tutt’oggi praticata a Novara di Sicilia. Certo è che le sue radici affondano per diversi secoli nel passato, attraverso la storia pastorale nella parte occidentale dei Monti Peloritani, la catena montuosa che divide il versante tirrenico da quello ionico lungo la Sicilia nord-orientale.
Qui, come d’altra parte in tutta la Sicilia, le terre rimasero di proprietà di pochi grandi latifondisti fino alla seconda metà del secolo scorso. Con l’avvento dell’agricoltura industriale e della globalizzazione, la struttura socio-economica rurale siciliana, rimasta pressoché inalterata per circa un millennio, si sgretolava irreversibilmente. Con essa, scomparivano gradualmente anche le conoscenze del mondo pastorale, trasmesse di generazione in generazione dagli zammattari (pastori-casari nel dialetto dei peloritani): tra queste, il metodo tradizionale di produzione del maiorchino. È a metà degli anni ottanta che Carmelo Ferrara fa la sua comparsa in questa storia.
Originario di Fondachelli Fantina, un paese incastonato nella valle del fiume Madridi, Carmelo cresce in una famiglia di contadini-pastori, prima di trasferirsi a Novara di Sicilia con l’intenzione di aprire una macelleria. Come succede in tutti i piccoli paesi siciliani, Carmelo è da sempre conosciuto con il suo soprannome: ‘u murgaellu. “Era il 1985 quando mi decisi a recuperare il maiorchino, un formaggio di cui avevo tanto sentito parlare ma che già non si produceva più. Andai a cercare Don Peppino, un vecchio zammattaro al servizio della Contessa Maiorca”. Secondo ricostruzioni orali, questa donna di nobile famiglia palermitana possedeva vastissimi latifondi nei territori dei moderni comuni di Francavillla di Sicilia, Fondachelli Fantina e Novara di Sicilia.
Nelle terre della Contessa, i curatti (contadini, in dialetto locale) erano dediti alla coltivazione del grano e al mantenimento dei noccioleti, mentre pecurari e zammattari alla cura del bestiame ed alla produzione di carne e formaggi. “Don Peppino, allora già novantenne, mi spiegò che il nome maiorchino derivava da maiorca: non la contessa, bensì la varietà di grano tenero tradizionale coltivata estensivamente in queste zone”. Le pecore e le capre venivano condotte e lasciate pascolare dai pecurari tra i campi dove la maiorca era stata coltivata e poi mietuta. L’alimentazione degli animali, composta principalmente da restuccia – i residui lasciati nei campi dopo la mietitura – e dai pascoli di montagna, donava al latte un sapore unico: era proprio questo latte che veniva usato per produrre il maiorchino.
Dopo un lungo periodo di prove, Carmelo ha ricostruito il processo tradizionale di lavorazione dell’antico formaggio. Tutt’oggi, dopo oltre trent’anni, lo replica fedelmente nel suo caseificio artigianale di Novara di Sicilia e ci ha invitati a documentarlo durante il nostro giro delle Sicilia in 80 giorni. “Il metodo insegnatomi da Don Peppino è diverso dal procedimento di produzione del pecorino tradizionale”. Il latte di pecora e di capra viene mescolato in percentuale del 60/40 all’interno di una quaddara (il tradizionale calderone di rame) e riscaldato a circa 45 gradi. “Don Peppino e gli zammattari prima di lui non avevano termometri a disposizione: per controllare che il latte fosse giunto a temperatura mi disse che era sufficiente infilarci il braccio ‘finchè resiste la mano’. Raggiunta quella temperatura, si poteva aggiungere il caglio”. Il caglio che usa Carmelo, ottenuto dalle interiora del capretto, è lo stesso utilizzato dagli zammattari per generazioni. La quaddara viene quindi tolta dal fuoco per circa un’ora, in modo che si formi la cagliata. Quest’ultima viene poi rotta energicamente con l’ausilio di un attrezzo di legno prima di riportare la quaddara sul fuoco e riscaldarne nuovamente il contenuto “finchè resiste la mano“.
Una volta arrivata a temperatura, Carmelo tuffa le braccia nella quaddara per raccogliere la cagliata formando una palla compatta. Con l’aiuto di un telo di lino e del figlio Salvatore, Carmelo la trasferisce dalla quaddara al mastrello di legno, all’interno di una garbua, la fascia circolare che darà la forma finale al maiorchino. Prima di trasformarsi in formaggio, la palla di latte cagliato ancora densa di siero che riposa ora sul mastrello dovrà essere sottoposta ad un delicato processo di drenaggio.
Con un rudimentale ago d’acciaio, Carmelo infilza la palla di latte cagliato e la pressa delicatamente con le mani. Questa operazione va ripetuta, ci spiega, finchè il siero che fuoriesce non passa da un colore giallastro ad un bianco pulito: ciò può richiedere oltre un’ora di lavoro ritmato e paziente. Nel frattempo, al siero nella quaddara viene aggiunto del latte e la soluzione riscaldata nuovamente, stavolta a circa 85 gradi centigradi, per fare salire la ricotta (non a caso la ricotta prende il nome da questo processo di ri-cottura del siero una volta estratta la prima cagliata). Raccolta la ricotta, la neonata forma di maiorchino viene immersa nella quaddara per un’altra ora.
L’ultima fase della caseificazione prevede un secondo processo di drenaggio, del tutto simile al primo, ed un passaggio in salamoia. La neonata forma di maiorchino può ora iniziare l’iter di stagionatura: massaggiata col sale per circa tre mesi, la ruota di formaggio viene oliata anche settimanalmente fino a maturazione, da un minimo di 6/8 ad un massimo di 24 mesi. Più lunga la stagionatura, più forte, piccante e caratterizzato sarà il sapore del maiorchino.
Il figlio e la figlia di Carmelo, Salvatore e Caterina, vendono il maiorchino ed altre specialità della tradizione agricola e pastorale a Novara di Sicilia, alla macelleria ‘u Murgaellu. Due porte a fianco, Filippo, marito di Caterina, è il proprietario del Bar San Nicola, dove si utilizza la ricotta di Carmelo per produrre squisiti prodotti di pasticceria tipici di Novara: diti d’apostolo, ravioli di ricotta e, naturalmente, i cannoli. Se è raro che un turista possa lasciare Novara senza un assaggio di queste specialità ed una chiacchierata con l’altrettanto squisitamente ospitale Filippo, è ancora più raro vedere Carmelo in paese. Il suo posto è in montagna, tra i suoi animali o a saggiare col braccio nudo la temperatura del latte nella quaddara, come Don Peppino e tutti gli zammattari prima di lui.
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Il Maiorchino di Novara di Sicilia
Il Maiorchino di Novara di Sicilia
La vicenda di un formaggio che ha rischiato d’essere perduto si intreccia con la storia centenaria delle comunità rurali dei Monti Peloritani e con quella di Carmelo Ferrara, detto u Murgaellu. Ve la raccontiamo.
TESTO E VIDEO DI TOMMASO RAGONESE
FOTO DI MARCO CRUPI
Il maiorchino è un formaggio quasi mitico. La sua origine non è infatti facile da stabilire con certezza: il nome appare in certi documenti del 1600 con riferimento al giuoco della maiorchina, una gara di lancio del formaggio a squadre tutt’oggi praticata a Novara di Sicilia. Certo è che le sue radici affondano per diversi secoli nel passato, attraverso la storia pastorale nella parte occidentale dei Monti Peloritani, la catena montuosa che divide il versante tirrenico da quello ionico lungo la Sicilia nord-orientale.
Qui, come d’altra parte in tutta la Sicilia, le terre rimasero di proprietà di pochi grandi latifondisti fino alla seconda metà del secolo scorso. Con l’avvento dell’agricoltura industriale e della globalizzazione, la struttura socio-economica rurale siciliana, rimasta pressoché inalterata per circa un millennio, si sgretolava irreversibilmente. Con essa, scomparivano gradualmente anche le conoscenze del mondo pastorale, trasmesse di generazione in generazione dagli zammattari (pastori-casari nel dialetto dei peloritani): tra queste, il metodo tradizionale di produzione del maiorchino. È a metà degli anni ottanta che Carmelo Ferrara fa la sua comparsa in questa storia.
Originario di Fondachelli Fantina, un paese incastonato nella valle del fiume Madridi, Carmelo cresce in una famiglia di contadini-pastori, prima di trasferirsi a Novara di Sicilia con l’intenzione di aprire una macelleria. Come succede in tutti i piccoli paesi siciliani, Carmelo è da sempre conosciuto con il suo soprannome: ‘u murgaellu. “Era il 1985 quando mi decisi a recuperare il maiorchino, un formaggio di cui avevo tanto sentito parlare ma che già non si produceva più. Andai a cercare Don Peppino, un vecchio zammattaro al servizio della Contessa Maiorca”. Secondo ricostruzioni orali, questa donna di nobile famiglia palermitana possedeva vastissimi latifondi nei territori dei moderni comuni di Francavillla di Sicilia, Fondachelli Fantina e Novara di Sicilia.
Nelle terre della Contessa, i curatti (contadini, in dialetto locale) erano dediti alla coltivazione del grano e al mantenimento dei noccioleti, mentre pecurari e zammattari alla cura del bestiame ed alla produzione di carne e formaggi. “Don Peppino, allora già novantenne, mi spiegò che il nome maiorchino derivava da maiorca: non la contessa, bensì la varietà di grano tenero tradizionale coltivata estensivamente in queste zone”. Le pecore e le capre venivano condotte e lasciate pascolare dai pecurari tra i campi dove la maiorca era stata coltivata e poi mietuta. L’alimentazione degli animali, composta principalmente da restuccia – i residui lasciati nei campi dopo la mietitura – e dai pascoli di montagna, donava al latte un sapore unico: era proprio questo latte che veniva usato per produrre il maiorchino.
Dopo un lungo periodo di prove, Carmelo ha ricostruito il processo tradizionale di lavorazione dell’antico formaggio. Tutt’oggi, dopo oltre trent’anni, lo replica fedelmente nel suo caseificio artigianale di Novara di Sicilia e ci ha invitati a documentarlo durante il nostro giro delle Sicilia in 80 giorni. “Il metodo insegnatomi da Don Peppino è diverso dal procedimento di produzione del pecorino tradizionale”. Il latte di pecora e di capra viene mescolato in percentuale del 60/40 all’interno di una quaddara (il tradizionale calderone di rame) e riscaldato a circa 45 gradi. “Don Peppino e gli zammattari prima di lui non avevano termometri a disposizione: per controllare che il latte fosse giunto a temperatura mi disse che era sufficiente infilarci il braccio ‘finchè resiste la mano’. Raggiunta quella temperatura, si poteva aggiungere il caglio”. Il caglio che usa Carmelo, ottenuto dalle interiora del capretto, è lo stesso utilizzato dagli zammattari per generazioni. La quaddara viene quindi tolta dal fuoco per circa un’ora, in modo che si formi la cagliata. Quest’ultima viene poi rotta energicamente con l’ausilio di un attrezzo di legno prima di riportare la quaddara sul fuoco e riscaldarne nuovamente il contenuto “finchè resiste la mano“.
Una volta arrivata a temperatura, Carmelo tuffa le braccia nella quaddara per raccogliere la cagliata formando una palla compatta. Con l’aiuto di un telo di lino e del figlio Salvatore, Carmelo la trasferisce dalla quaddara al mastrello di legno, all’interno di una garbua, la fascia circolare che darà la forma finale al maiorchino. Prima di trasformarsi in formaggio, la palla di latte cagliato ancora densa di siero che riposa ora sul mastrello dovrà essere sottoposta ad un delicato processo di drenaggio.
Con un rudimentale ago d’acciaio, Carmelo infilza la palla di latte cagliato e la pressa delicatamente con le mani. Questa operazione va ripetuta, ci spiega, finchè il siero che fuoriesce non passa da un colore giallastro ad un bianco pulito: ciò può richiedere oltre un’ora di lavoro ritmato e paziente. Nel frattempo, al siero nella quaddara viene aggiunto del latte e la soluzione riscaldata nuovamente, stavolta a circa 85 gradi centigradi, per fare salire la ricotta (non a caso la ricotta prende il nome da questo processo di ri-cottura del siero una volta estratta la prima cagliata). Raccolta la ricotta, la neonata forma di maiorchino viene immersa nella quaddara per un’altra ora.
L’ultima fase della caseificazione prevede un secondo processo di drenaggio, del tutto simile al primo, ed un passaggio in salamoia. La neonata forma di maiorchino può ora iniziare l’iter di stagionatura: massaggiata col sale per circa tre mesi, la ruota di formaggio viene oliata anche settimanalmente fino a maturazione, da un minimo di 6/8 ad un massimo di 24 mesi. Più lunga la stagionatura, più forte, piccante e caratterizzato sarà il sapore del maiorchino.
Il figlio e la figlia di Carmelo, Salvatore e Caterina, vendono il maiorchino ed altre specialità della tradizione agricola e pastorale a Novara di Sicilia, alla macelleria ‘u Murgaellu. Due porte a fianco, Filippo, marito di Caterina, è il proprietario del Bar San Nicola, dove si utilizza la ricotta di Carmelo per produrre squisiti prodotti di pasticceria tipici di Novara: diti d’apostolo, ravioli di ricotta e, naturalmente, i cannoli. Se è raro che un turista possa lasciare Novara senza un assaggio di queste specialità ed una chiacchierata con l’altrettanto squisitamente ospitale Filippo, è ancora più raro vedere Carmelo in paese. Il suo posto è in montagna, tra i suoi animali o a saggiare col braccio nudo la temperatura del latte nella quaddara, come Don Peppino e tutti gli zammattari prima di lui.